Sentirsi grassa

[…] Ci sono stati tanti aspetti ricorrenti nella mia esistenza che ho sempre considerato normali. Tante attenzioni, tante preoccupazioni, tanti comportamenti: i quali, col senno di poi, riesco ad inquadrare come humus per il germogliare di un disturbo dell’alimentazione forse molto grave. Ricordo che quando avevo otto anni, arrivando dal pattinaggio artistico, ho iniziato a praticare la ginnastica artistica. Ricordo anche che quando mi consegnavano i body della squadra per le gare me li provavo e riprovavo, guardandomi allo specchio. Forse proprio lì è iniziata la mia relazione impossibile con questo maledetto oggetto

[…] E quindi mi sentivo inevitabilmente grassa. Mi chiedevo se lo fossi. Non sempre, ma a tratti il dubbio mi assillava. Mi rimettevo il body e mi guardavo. Soprattutto le cosce, perché le vedevo grosse, soprattutto guardandole da sopra. Poi dal davanti, allo specchio, forse andava meglio. Però avevo la pancia, oltre alle cosce, difficile da gestire. Ricordo che ho fatto la mia prima dieta a dieci anni, in quinta elementare. Non è stata una vera e propria dieta, ma certamente una restrizione calorica reale. Mi sentivo grassa, avevo paura di diventare un porcellino obeso, quindi ho chiesto a mia mamma di darmi meno cibo e di non farmi mai prendere il bis – ed anche in mensa a scuola, quando fino al giorno prima avevo l’abitudine di fare quei bis, ho smesso drasticamente di farlo. Dovevo alleggerirmi, asciugarmi. Essere magra. Sia chiaro che non ero grassa: riguardando le foto di quei saggi, che amavo così tanto, con una passione quasi bruciante, rivedo una bambina perfettamente longilinea, senza un filo di pancia, con le gambe belle e sottili. Eppure mi sentivo una botte. Ero pesante come il piombo. Grossa. Grassa.

[…] Poi il corpo andava bene: ero snella e mantenevo una forma abbastanza magra. Non magra come avrei voluto, perché la mia migliore amica del tempo era più magra di me, dal mio punto di vista in modo impressionante – ma riguardando le foto, col senno di poi, si trattava di una differenza impercettibile. E ricevevo anche commenti positivi dai coetanei sul peso e sulla forma del corpo, compresa qualche iniziale attenzione maschile: quindi era giusto così.

[…] Soltanto con il senno di poi mi sono resa conto di aver espresso in alcuni periodi della mia vita un giudizio negativo, intransigente e globale sul mio valore personale influenzato dal non essere più abbastanza magra. Probabilmente sono sempre stata guidata da un perfezionismo estremo: mi è sempre piaciuto essere brillante. E mi è sempre piaciuto essere “bella”, nel contesto di una bellezza che è ideale e soprattutto “mentale”, ma che mi rendo conto ora abbia sempre compreso intrinsecamente, purtroppo, anche la magrezza. Che ho poi frainteso con “leggerezza”.

[…] E infatti dentro di me c’era spesso molto di più, c’era a tratti un’insicurezza bruciante, c’era un senso di solitudine che a volte non mi faceva respirare, ma mettendomi davanti lo scudo della perfezione mi sentivo protetta. Pur nel contesto di una vita esternamente “normale”: ed infatti ho avuto moltissime gioie, certamente non solo dolori. Ma una nota di solitudine risuonava spesso quasi malinconica. Probabilmente tutto ciò si legava anche ad una difficoltà importante nella gestione delle emozioni: sia nell’esprimerle, sia nel viverle. Anche lavorare su questi diversi aspetti è stato successivamente devastante, nella mia risalita contro il disturbo dell’alimentazione che mi ha colpita, ma ce l’ho fatta. Uso volutamente la parola “devastante” senza esagerare, perché si è trattato di mettere in discussione la mia persona in modo completo e con ciò il modo in cui mi ero sempre definita fino a quel momento, quindi quella che consideravo la mia identità. “Io”.

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