Questa riflessione romanzata nasce dall’esperienza vissuta nel contesto terapeutico dei Disturbi dell’alimentazione: non pretende di porsi come definitiva né unica, ma vuole aprire uno spazio di contatto anche emotivo con una problematica tanto complessa, pervasiva e profonda e troppo spesso storpiata nella sua presentazione mediatica e nell’immaginario comune. 

Ciò che si auspica è il miglioramento degli approcci terapeutici e l’intensificazione della ricerca scientifica, in modo da poter offrire percorsi sempre più efficaci per un problema che spesso resta insidiosamente nascosto senza ricevere un supporto immediato specialistico e che sta continuando drammaticamente a crescere, anche nei giovanissimi – ma non solo.

L'Anoressia Nervosa

L’anoressia nervosa, abbreviata spesso con la sigla AN, è un disturbo dell’alimentazione che impone a chi ne soffre alcuni comportamenti e abitudini legati al controllo della dieta, del peso e della forma del corpo. Una chiave importante di interpretazione, racchiusa in un tipo di possibile visione terapeutica, risiede nel fatto che la persona con AN convoglia la propria autovalutazione in modo pressoché specifico sul peso e sulla forma del corpo, andando ad impoverire, fino talvolta ad annullare, le altre aree di interesse e di realizzazione personale. Le sue cause non sono ancora definite in modo assoluto, quindi discutere sulle possibili cause dell’AN diventa forse una chiacchierata da bar, in cui esistono molte teorie e ognuno può certamente dire la sua, ma nessuno è in grado di dimostrare in modo serio ciò che va a sostenere.

Resta potenzialmente valida un’osservazione generica per cui essa talvolta possa annidare il suo esordio in un terreno per qualche motivo confuso, sradicato, privo d’identità: ed è proprio qui che forse appare la chimera di un comportamento che, grazie ad un controllo utopico, fa riprendere alla persona le redini del proprio dominio, la strada nella nebbia, il benessere nell’angoscia, occupando il pensiero e gli intenti in un flusso mentale continuo capace di ricoprire dolcemente il resto, ciò che soffoca e schiaccia e che non si vuole più ascoltare. Ci si vuole rinnovare, ricostruire, ma in modo migliore. Paradossalmente, però, sarà proprio questo pensiero a voltarsi prima o poi e rivelare la sua cruda anima demoniaca.

Se non controllata, l’AN può estendersi come una macchia di petrolio all’interno della persona, andando a colorarne ogni minima parte. Le persone che soffrono di AN tipicamente vanno ad indirizzare gradualmente ogni proprio intento, energia e interesse verso la condizione che vivono e allo scopo di continuare a dimagrire, per “sentirsi più leggere”, come delle “farfalle leggiadre”, e per “togliere anche quell’ultima pieghetta di grasso”, che però non sarà mai l’ultima.
Tutto ciò genera solitamente una condizione clinica di malnutrizione, che può diventare anche grave o addirittura estrema, la quale si manifesta con ripercussioni mentali e caratteriali oltre che fisiche: contribuisce infatti progressivamente all’isolamento sociale, alla perdita di interesse verso attività precedentemente ricercate, alla negatività, alla mancanza di intenti, alla perdita di positività ed entusiasmo. Una persona con AN grave non potrà per definizione essere o rimanere solare o propositiva, né in senso generale mai e poi mai potrà rimanere semplicemente se stessa, ma con il procedere della malattia si muoverà verso una crescente “apatia”.

Tutto questo spesso è condizionato anche da un nucleo interno di perfezionismo cosiddetto clinico, che porta alla tensione verso una perfezione che può sfociare nell’eccesso patologico, secondo la quale “non è mai abbastanza”, per cui allora “non si è mai abbastanza”, talora anche con un sottofondo di bassa stima di sé. 
Accade così che la persona con AN, ingrigita e comandata meccanicamente dal metaforico avvelenamento che l’ha pervasa, procede nel suo intento di perdere peso e di essere sempre più magra, oltre limiti sempre più bassi e che non basteranno mai. E i sintomi fisici che inevitabilmente subentrano non riescono a fermare questa tempesta di sabbia, perché ormai il treno è in corsa. 
Paradossalmente la persona con AN non si rende spesso nemmeno conto del proprio cambiamento in negativo, perché la sua interpretazione è positiva. Ma di questo non potrà mai accorgersi, se non solo ed esclusivamente dopo essere guarita! – se sarà una di quelle, poche o magari pochissime, ma che si spera diventeranno di più col progresso degli approcci terapeutici di aiuto, che ce l’avrà DAVVERO fatta.

Quando l’avvelenamento avrà oscurato ogni luce, la guida la detterà la malattia. Tutte le persone con AN si trasformano in automi automatici, che nel rivendicare il proprio orgoglioso essere speciali si muovono invece in totale solitudine su percorsi crudamente prevedibili quanto subdolamente pericolosi. 
Sia chiaro: non è una colpa! Non cadiamo in facili semplificazioni colpevolizzanti, perché la dinamica è drammaticamente complessa e profondamente personale e soggettiva, così come lo è di conseguenza una corretta gestione terapeutica di aiuto.

Il senso di solitudine e di tristezza spesso avvolge lo spirito di chi è colpito dall’AN, ma anche in questo caso la sua interpretazione potrà apparire distorta: non rendendosi conto di vivere la malattia e di essere guidata da una forza patologica, la persona con AN, convinta di aver scelto e raggiunto orgogliosamente da sé quella strada (e in primis quel peso corporeo, che rappresenta il fulcro del meccanismo, dapprima come fine e poi come motore irrefrenabile), interpreterà le sensazioni negative come un tratto malinconico e caratteristico del sé, magari legato al non essere abbastanza brava a fare quello che deve. Al non valere mai abbastanza. L’auto-svalutazione cresce, il peso scende. Ma se il controllo si intensifica, allora l’interpretazione torna positiva, perché gli si attribuisce un valore di efficacia.

Dal momento che progressivamente ogni sforzo procede verso il dimagrimento, a costo di scendere in modo volontario e controllato ad un’alimentazione di 1000, 800, 500, 300 calorie giornaliere, tutto il resto non conta. Ogni commento esterno che complimenta l’iniziale perdita di peso diventa una conferma al fatto che ciò che si sta facendo è giusto, poi ogni commento che insinua un eccessivo dimagrimento prende le note di un commento errato: per la persona con AN il proprio peso non è sbagliato, ma lo sono i commenti degli altri. Sono poco oggettivi, oppure sono gelosi della sua linea. LORO non ce la possono fare, non hanno abbastanza disciplina. La disciplina ferrea invece impone di pensare sempre al cibo e di focalizzarvi ogni intento ed attenzione: pianificando in anticipo quanto e cosa (non) mangiare esattissimamente, sentendosi eroicamente orgogliosi quando addirittura si mangia di meno del previsto. Impone di controllare i propri andamenti e progressi con continue verifiche visive e tattili del corpo, in cui allo specchio viene scrutato ogni centimetro di pelle e dove le mani cercano ogni imperfezione sopravvissuta al rigore.

Qualcuno dice che inizialmente la perdita di peso viene confortata e supportata da un transitorio senso di euforia e benessere, una sorta di “luna di miele” in cui le sensazioni benefiche sono in un certo modo assimilabili all’euforia che prova chi consuma sostanze stupefacenti, che per questo continuerà a cercarle. Il ragionamento però non torna [questa è una mia originalissima e personale riflessione]. La persona con un problema di dipendenza da sostanze può accettare di intraprendere una terapia con metadone, sostanza farmacologica che dà lo stesso “sballo” ma senza gli effetti collaterali devastanti di altre droghe. Ma la persona con AN non accetterebbe una sostanza “magica” capace di provocare l’euforia della prima fase di perdita di peso al prezzo di non perdere peso. Questo mai: il motore che traina non è l’euforia, quella è solo una piacevole e magari del tutto inattesa conferma, che amplifica la scelta e la conferma, ma che non ne fa parte e non la guida. Alla persona con AN bisognerebbe chiedere piuttosto quanto segue: “saresti disposto/a ad assumere una sostanza misteriosa che, senza darti alcuna gioia, ti farebbe raggiungere e mantenere esattamente, finalmente, il peso (estremamente basso) che desideri, proprio quello, finalmente quello giusto che stai cercando?”. La risposta sarebbe sì, in chi si trova nel vortice della tempesta. O peggio: nelle fasi realmente approfondite e oscure addirittura si potrebbe arrivare ad accettare l’assunzione ipotetica di una sostanza misteriosa capace di far raggiungere esattamente e finalmente e stabilmente il peso (estremamente basso) che si desidera, senza che questa provochi alcuna gioia, anche al prezzo di effetti collaterali negativi. L’obiettivo va raggiunto a tutti i costi.

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Per fortuna, durante questa corsa al suicidio (non solo corporeo, ma anche interiore), possono capitare per qualcuno momenti in cui la velocità rallenta e si riesce a voltarsi indietro, almeno un pochino, se si è fortunati o attenti quel tanto che basta. Ed è in quei momenti che ci si chiede se sia giusto e se quello che si fa rappresenta davvero una scelta – e non piuttosto un problema. Sono questi gli unici appigli in cui si potrebbe cogliere la ciambella di salvataggio lanciata dalla Vita, o in alcuni casi da un terapeuta competente, e fidarsi di quanto propone, anche se risalire in superficie fa piangere e fa paura, fa tremare e fa urlare, a volte sembrerà di impazzire, perché quegli abissi erano stati così faticosamente conquistati che abbandonarli sembra la perdita di un grande risultato. E la perdita di grandi conferme, accettando una risalita verso mete che non si sanno delineare con soppesata precisione. Una perdita di certezze. Un abbandonarsi al caos.

Si tratta in verità di tornare ad essere se stessi, ma la consapevolezza di questo arriva solo dopo esservi riusciti. Nell’anoressia nervosa ci si perde, ci si svuota: ma ci si appiglia ad una valutazione di sé in quanto guscio svuotato, attribuendovi paradossalmente una valenza positiva, perché è un risultato speciale e perché mentalmente il controllo esasperato del peso e dell’alimentazione sembra creare stabilità, conforto, sicurezza. 
E se poi non ne valesse davvero la pena? Se poi, una volta ripreso ossigeno fuori da questo oceano, una volta tornati al mondo reale, si scoprisse che si è vanificato per nulla un lavoro faticoso, decisivo e GIUSTO di miglioramento di se stessi? È questo dubbio insidioso che talora può far fluttuare gli esiti della terapia, soprattutto in alcuni momenti in cui si ricontempla quell’abisso e si prova nostalgia per quelle rassicuranti certezze. 

L’AN rappresenta un apparente nascondiglio perfetto. Un luogo controllato, protetto e scelto in cui riporre ogni sforzo, ogni accanimento, ogni sensazione, senza rischiare in altro modo. Il controllo sulla dieta, sul peso e sulla forma del corpo crea un’identità chiara, chiaramente – anche se faticosamente – identificata, senza rischi, certamente apprezzata. Un sentirsi speciali al di sopra di tutti gli altri, magari in un momento in cui la vita sembrava troppo difficile, troppo sbagliata. Ci si focalizza e si ottiene successo in un ambito preciso in cui si acquisisce il PIENO E TOTALE CONTROLLO.

Se la persona con AN permette alla propria malattia di farla allontanare troppo da quel sole, metafora della Vita libera, di farla scendere troppo nelle tenebre, si assottiglierà sempre di più la possibilità di tornare indietro.
Esiste forse un punto di non ritorno – su questo il dibattito tra esperti è aperto. Esiste probabilmente un limite oltre il quale non si potrà più voltarsi indietro e ricordare la Vita vera, le emozioni vere, le relazioni vere, perché saranno troppo lontane, anche nella memoria. Impossibili da ripescare, da visualizzare, tanto meno da percepire. Ed è lì che probabilmente non si vive più l’AN, ma crudelmente si DIVENTA l’AN. Sono allora forse questi i cosiddetti casi “cronici” o meglio “di lunga durata”, quelli che anche con qualche terapia transitoria (che non fa tornare a vivere, ma permette di sopravvivere) quasi sempre torneranno a ricadere, a tornare velocemente prevedibili scheletri vuoti. Quelli in cui si subisce una trasmutazione esistenziale tanta e tale per cui l’AN forse diventa parte di sé e non altro da sé, da cui si fatica sempre di più a prendere le distanze. Allora rischierà di esistere solo l’AN, a parlare ed agire per conto di quel corpo che soggiacerà ai suoi voleri ed attraverso quella mente che esprimerà sempre meno volontà proprie. 
Il “DVD” che si accende nella mente e che guida i comportamenti propri del disturbo – metafora con cui si identifica in alcuni approcci terapeutici specialistici lo “stato mentale” che guida appunto i comportamenti caratteristici del problema specifico – non si potrà più espellere, il disco si sarà rotto e replicherà inesorabilmente le stesse cupe note. Una terapia di aiuto sarà radicalmente necessaria, ma non sempre sarà capace di manifestarsi in piena efficacia. Oppure riuscirà a palliare, ma non sempre a guarire.

Un modo per far retrocedere una persona con AN dalla propria corsa verso l’oblio potrebbe essere quella di fornirle uno SPECCHIO DIVERSO. La caratterizzazione che porta all’auto-identificazione con la malattia, interpretata non come malattia ma come sfida, in alcuni momenti come sballo, che sazia nella mente con la soddisfazione del controllo anziché con il cibo nello stomaco, con quella soddisfazione trascendentale nel sentire la pancia sempre più vuota, quasi lacerata, la fa leggere come parte di sé, quasi come il proprio fondamento. Per chi la vive, per chi la respira e la cavalca, l’AN non è una malattia che distorce la mente, ma un modo di ESSERE, di diventare, di presentarsi, di dimostrare una forza maggiore di quella degli altri, che entra nella persona.
Purtroppo questa tossina in realtà annulla la persona, la trasforma in uno stereotipo vuoto, la appiattisce nell’ombra del vero sé, facendola soggiacere ad un volere che prende il sopravvento. E’ lì che la scelta inizia a diventare un problema: ma non sempre.

Si parla spesso tra gli addetti ai lavori di “ambivalenza”, riferendosi a quelle situazione in cui dal disturbo si vorrebbe uscire, ma non se ne è sempre convinti. Qui la domanda da fare per capire chi potrà farcela potrebbe essere piuttosto chiara, pur nella sua complessità profonda: “Descrivimi te stessa (o te stesso) senza il controllo ossessionante del peso, della forma del corpo, dell’alimentazione. Cosa vedi? Se da domani smettessi di pesarti, di rimirarti allo specchio, di contare le calorie e di evitare molti cibi, chi saresti? Chi diventeresti?”: se la risposta è vuota, traballante, titubante, indecisa e malinconica, ancor peggio se non c’è o se si pensa che “io SONO questo”, forse la terapia sarà destinata a fallire, forse la lunga data o la drammaticità del problema lo ha fatto incrostare troppo nel profondo – e la cura sarà drammaticamente problematica. Ma va tentata.

Uno "specchio diverso"

Serve probabilmente la proposta di uno SPECCHIO DIVERSO, con una visione di sé che non si basi sul riflesso della magrezza estrema e dell’emaciazione alla quale gli altri non sono capaci di arrivare, ma sulla realizzazione di una completezza personale che comprenda anche altri ambiti.

Chi per fortuna o per impegno riesce finalmente a liberarsi da questo demone interno, guardandosi indietro solitamente si sconvolge piano piano dell’abisso in cui stava precipitando: diviene totalmente consapevole di ciò che è stato e allo stesso modo consapevole che ciò non potrà essere di nuovo, perché a nessun costo lo permetterà. Sciogliere il nodo dell’AN permette di riscoprirsi, di rinascere, di ammirarsi finalmente attraverso uno specchio diverso, di diventare più consapevoli di se stessi ed anche più compassionevoli, più empatici, più flessibili, in gran parte più buoni. Certamente migliori di prima.
Ma non è facile, non è scontato e non è comune e il viaggio – anche interiore – è davvero lungo. E durissimo.

Non si sa perché né come, ma ci saranno momenti nella vita, anche dopo la guarigione, in cui quel mendicante meschino busserà ancora alla porta, magari travestito, proponendo soluzioni facili per risolvere situazioni difficili. Capiterà magari proprio in frangenti bui, nella tristezza, nella solitudine, nel lutto, nella rabbia: il campanello del ricordo suonerà e una soluzione facile sarà visualizzata, proverà di nuovo a muovere l’agire della persona guarita. 
Restringere l’alimentazione allora farà stare meglio. Perdere qualche chilo, ritrovare il controllo, saltare quel pasto, renderà subito felici. Una vocina insidiosa ordina sottovoce: “Fallo…” 

Com’è possibile che dopo tutta la sofferenza, dopo tutto l’oblio e le catene che impone, il disturbo possa ancora allettare, la ricaduta abbia lo spazio di riproporsi? Forse perché purtroppo, per uno strano scherzo della natura – o forse della psiche umana – dopo tanto tempo ci si ricorda solo degli aspetti positivi. Quelli che i terapeuti definiscono “egosintonici”. Ci si fa tentare dal rifugio di benessere che quel controllo inizialmente aveva regalato, come un Mangiafuoco che alletta con solluccheri per poi distruggere la Vita, come un viaggio su una barca in acque cristalline e splendide mentre crogiolandosi al sole non si vede la cascata che si avvicina inesorabilmente. Quella prima fase, quella luna-di-miele, era stata così piacevole… che diviene un frutto proibito che tenta, che attrae in momenti di difficoltà, che fornisce una mano tesa ad una richiesta di aiuto, un rifugio che ripara da una tormenta. Ma è un rifugio di fango.

E allora no. Il pensiero va combattuto e schivato, per non farsi colpire, per evitare che un passo in una direzione sbagliata faccia imboccare di nuovo quella strada, magari senza neanche rendersene conto. L’onda passerà.
Basterà questo, anche se serve la forza di cento o forse di mille uomini per riuscire a farlo, magari tra le lacrime e i tormenti: e allora finalmente sarà sufficiente la consapevolezza del danno, del problema, del rischio, e il non voler rivedere la propria immagine svuotata e deforme in quel vecchio e crepato specchio malato, per rifiutare le lusinghe e per dire a gran voce NO. Magari sussurrandolo quasi senza fiato, per poi arrivare ad urlarlo a pieni polmoni.
Con la forza di non voltarsi e di continuare a riflettersi fiduciosi con il sorriso del vero Sé attraverso lo specchio nuovo, che non potrà deludere mai.

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